27 gennaio 2020
Queste riflessioni, scritte esattamente un anno fa, nel Giorno della Memoria, bruciano oggi come allora, come le nostre responsabilità abdicate.
In questo giorno, scambio messaggi con un’amica siriana in Libano. Vive in un piccolo appartamento a Beirut. Dal 2013, in gabbia con il marito. Non possono uscire, e quando il marito lascia la casa per comprare cibo o per lavoro nero occasionale, rischia la deportazione. I due bambini sono nati in Libano e non sono mai stati all’aperto, né hanno mai incontrato altri bambini. Mai. Hanno un’altalena fatta in casa e poco altro. Lei, la mia amica, che gestisce l’energia e l’educazione dei bambini in quattro mura, è forse la mamma più creativa che incontrerò in questa vita.
In Siria, lei ha conosciuto le prigioni di Assad. Detenzione e tortura mentre era incinta; era ritornata per il rinnovo del passaporto. Il marito ha il cognome di un ricercato politico, e tutti coloro che portino questo cognome, o siano loro parenti, sono esposti a persecuzione.
I due coniugi erano benestanti. Lui un famoso disegnatore di tessuti; lei, avvocato, studiava per la seconda laurea, in Medicina. Avevano un regolare permesso di soggiorno e un conto corrente in Libano, fatto non inusuale per cittadini siriani che avessero relazioni economiche con il Libano. Benvenuti loro, il loro contributo all’economia locale, i loro soldi. Poi è iniziato il flusso in uscita dalla Siria. Così il Libano ha smesso di concedere permessi di soggiorno ai nuovi arrivati e smesso di rinnovare quelli esistenti. Tutti sono diventati illegali, e da allora vivono in campi profughi oppure nell’ombra, sempre a rischio di deportazione.
La mia amica è una volontaria interprete di arabo-inglese per una piccola organizzazione che offre supporto legale ai richiedenti asilo in Svizzera. Come sia arrivata a loro non so. Ma ricordo di averle chiesto come potesse continuare a lavorare gratis per un progetto che non le fosse di alcun vantaggio, specie con due bambini da curare a tempo pieno – niente scuola, niente giochi, affacciarsi alla finestra proibito. So che ogni opportunità di fare qualcosa con noi, che le confermi di essere utile e capace, è una delle poche cose che la tengano in vita. Momenti molto bui sono stati superati grazie a L, un’amica in Svizzera che le ha permesso di continuare a vivere in un appartamento (anziché finire in tenda, in un campo profughi, dove muori per un’influenza) quando i risparmi sul conto corrente in Libano sono terminati.
La famiglia è stata accettata dal programma internazionale di « resettlement » gestito da UNHCR. Una procedura lenta e nebbiosa, che somiglia a un contagocce affaticato impegnato a svuotare un lago. Oggi, unendo i puntini di comunicazioni sparpagliate e foto di biglietti manoscritti da addetti ai lavori in Scozia, forse abbiamo indovinato il loro futuro indirizzo, appartamento C, primo piano. I negozi vicini a casa: un fioraio, una piccola libreria che vende anche articoli da regalo, un supermercato. Un parco, la scuola elementare lì vicino. Un ponte, il fiume che dà il nome al paese. «Sono infantile», si scusa, quando le sue domande affollano Whatsapp a velocità superiore a quella delle mie risposte. Internet è un alleato importante. Oggi mi aiuta a farla sognare, mentre lei respira l’odore di un traguardo che non sperava più.
Discutiamo di check-in, di paura di volare, di bagaglio da imbarcare, di bagaglio a mano.
«Non ho una valigia. Posso usare sacchetti di plastica?» Ridiamo. Si preparava a portare con sé i piatti. Glielo vieto. Ridiamo di nuovo.
Una famiglia si prepara a partire. Non hanno affrontato il mare in gommone perché avevano paura dell’acqua.
Migliaia di altre famiglie sono sole, senza corridoi umanitari, senza amici in vita, con parenti lontani o scomparsi, senza conoscenza dei propri diritti, appesi al filo di una lotteria internazionale che decide se domani esisterai. Oggi, 27 gennaio, per guardare indietro basterebbe guardare al presente.