I pazienti di oncologia hanno un rapporto speciale con i loro ospedali. Tipo Sindrome di Stoccolma, scrive Kinan. In una Milano congelata dal lockdown, con le sirene delle ambulanze e i controlli per le strade, le paure di Kinan si mischiano ai ricordi di Aleppo. E non è soltanto che il tumore è tornato: è l’essere malato in una lingua che non è la tua. E poi c’è il virus: tu, paziente, bomba a orologeria per te stesso, per il personale medico, per la città intorno a te.
In un certo senso, nel sospetto, nel caos, nella fobia, sarebbe comprensibile vedere assegnata priorità ai connazionali italiani malati; rispetto a qualcuno arrivato dalla Siria, per esempio, qualcuno che sarebbe morto comunque, per guerra o malattia. E invece, con le risorse allo stremo e i reparti che lavorano alla massima capacità, questa nazione in ginocchio non sceglie in base alla nazionalità: sulla base della gravità, della rarità e della ferocia della mia patologia, io ricevo attenzione e trattamento.
“Kinan era amico, famiglia, fratello.” La voce di Wael mi racconta del loro primo incontro ad Aleppo, nel 2012, quando montavano i tendoni per le famiglie sfollate in arrivo da Idlib. In verità, Kinan montava le tende e Wael era arrivato a “dirigere i lavori”.
Kinan, esperto boy-scout, non aveva apprezzato. Nell’equivalente arabo del nostro “Ma questo cosa vuole?!”, Kinan aveva ripristinato l’equilibrio. Le loro vite avevano continuato a muoversi su binari paralleli da allora: dalla Siria al Libano, e poi dal Libano all’Italia.
Kinan aveva ricevuto la diagnosi di un tumore in Siria. La situazione degli ospedali era complicata e l’accesso a personale medico qualificato sempre più difficile; Aleppo occidentale era sotto assedio e lasciare la città impossibile. Così lui aveva chiesto aiuto a JRS, l’organizzazione umanitaria con cui collaborava come volontario, per raggiungere il Libano e ripetere gli esami.
Con venti minuti di preavviso, Kinan aveva ricevuto istruzioni per la partenza. Mentre il padre e il fratello avevano preparato i soldi, la madre un chilo di cetrioli e dodici panini al formaggio, due amici i vestiti, Kinan aveva ballato.
Kinan, attivista e oppositore del regime, aveva finito per lasciare Aleppo su un aereo militare dell’esercito di Assad. In aereo, seduti sul pavimento circondati da munizioni, lui e un altro civile avevano condiviso i cetrioli e i panini con un tenente. Ne era nato il racconto “Il mio volo su Assad Airways”. C’è commedia nei cetrioli. E grande conoscenza.
A Beirut, i test erano risultati negativi e, per un po’, Kinan aveva smesso di immaginare il proprio funerale. Accettato da un programma di studio dell’Università Cattolica di Milano, aveva scoperto poco dopo l’arrivo in Italia che la malattia lo aveva accompagnato per quattro anni.
Ne erano seguiti interventi chirurgici, cicli di chemioterapia e radioterapia; intanto Kinan studiava Scienze Politiche, insegnava arabo, frequentava l’Alternative Academy of Arab Journalism a distanza e scriveva per Al-Jumhuriya, un progetto di giornalismo civile in Siria. “Era più tempo in ospedale che in università, ma non si fermava mai.”
La voce di Wael ritrova il sorriso quando mi parla delle loro serate insieme a Parma.
“Sceglievamo in anticipo i piatti tradizionali da cucinare a casa mia e chiedevamo istruzioni alle nostre mamme. Erano sempre ricette diverse: di tradizione cristiana, la sua; musulmana, la mia. Lui mi mandava i messaggi vocali di sua madre per convincermi degli ingredienti da usare. La ricetta finale aveva sempre un po’ di entrambe.”
La mamma di Kinan, che ha potuto raggiungerlo a Milano, in un viaggio che sa di
miracoloso nella tristezza, tornerà presto in Siria lasciandosi alle spalle tomba del figlio.
Gli scritti di Kinan, che continuerò a leggere, sono lucidi e taglienti.
Se ti ho reso triste, ho fallito. Ma se non hai provato niente, è anche peggio.
Il testo in corsivo è adattato dagli scritti di Kinan Kubba.