Non ho fatto colazione e divoro il mio pranzo con un’ora di anticipo, mentre un collega prende il caffè. La sua scrivania è a venti metri dalla mia, ma lavoriamo in team diversi, perciò i nostri contatti si limitano a un “ciao” o, dopo un’assenza di qualche giorno, “come stai?”.
Ha tratti asiatici ma è decisamente un indigeno, perciò mi stupisco di sentire la mia voce chiedergli proprio oggi: «Sei svizzero?»
È vietnamita. È arrivato in Svizzera come rifugiato all’età di 8 anni, con il padre e uno zio.
Come avveniva il viaggio allora?
«Proprio come oggi: pagavi qualcuno molti soldi affinché ti aiutasse ad attraversare il mare.»
Loro avevano raggiunto l’isola di Palau Bidong, in Malesia, su una barca di pescatori, a più di 400 km di distanza.
«Le cose sono andate bene per noi. Siamo stati fortunati.»
Erano rimasti in un campo profughi sull’isola finché non erano state offerte loro due opzioni: la Svizzera un mese più tardi o gli Stati Uniti dopo un’attesa di cinque. Le condizioni di vita al campo non erano buone e molte persone si stavano ammalando; così suo padre, temendo per la salute della propria famiglia, aveva scelto l’opzione che li avrebbe portate al sicuro il prima possibile.
Erano stati trasferiti in aereo in Tailandia e successivamente in Svizzera. Oggi, 36 anni dopo, hanno tutti e tre il passaporto svizzero.
Anche sua madre, i nonni e il resto della famiglia avevano lasciato il Vietnam, ma più tardi, e il loro viaggio era stato più pericoloso. La barca era stata dirottata e non erano riusciti a raggiungere la stessa isola su cui si trovava il resto della famiglia. Difficile dire quanti giorni erano rimasti in mare aperto. Erano finiti lontano dalla loro destinazione. Erano stati attaccati da pirati che avevano rubato soldi e gioielli a tutti i naviganti. Una donna indossava un bracciale di giada intero, indossato fin da bambina come portafortuna e destinato a non essere più tolto per la vita; i pirati le avevano tagliato la mano per prendere il bracciale. La madre del mio collega aveva nascosto i propri anelli tra i capelli. «Sono stati fortunati. I pirati li hanno lasciati andare.»
Erano stati salvati da una nave da guerra italiana e terminato il loro viaggio vicino a Venezia. Avevano viaggiato dal Vietnam all’Italia senza mai toccare terra.
Prima di ricongiungersi al resto della famiglia in Svizzera, avevano dovuto attendere un altro anno.
Conosco molte famiglie partite dalla Siria e dall’Afganistan in momenti diversi, per insufficienza di denaro per pagare i trafficanti. Negli anni scorsi, l’arrivo su isole diverse in Grecia o, come avvenuto per molti nel 2016, la partenza per il nord Europa a orari diversi nello stesso giorno – il giorno della chiusura della rotta balcanica per le persone provenienti dall’Afganistan, prima, e a tutte le nazionalità, poi – per molti ha significato la separazione delle famiglie per mesi o anni. La famiglia di Farhad, con i due fratellini e i genitori, per quattro anni non ha rivisto gli zii e i cuginetti, con i quali in Afganistan aveva condiviso la casa ereditata dai nonni. Lo zio era morto in un fiume in Bosnia, giocando con i suoi bambini, e la moglie era rimasta sola con loro in un campo profughi, senza i mezzi per il proprio sostentamento o per dare un funerale al marito.
Oggi, la Grecia ha creato campi di detenzione sulle isole e attua respingimenti collettivi dei nuovi arrivi, dichiarando falsi numeri ai media. Quando le barche raggiungono le isole, la Guardia Costiera greca rimette le persone in mare, respingendole verso la Turchia di Erdogan – quella stessa Turchia che solo pochi mesi fa usava i rifugiati come scudo e ostaggio al confine di terra con la Grecia. A volte le persone sopravvivono alla traversata all’andata ma non al ritorno, nella silenziosa complicità dell’Unione Europea.
Non esistono navi militari a salvare le persone in mare e il lavoro delle organizzazioni umanitarie è osteggiato e criminalizzato. Via terra, in nome della pandemia, si attuano respingimenti collettivi, e una situazione che sembrava non poter peggiorare oltre si è trasformata, per le persone in cerca di protezione, in un nuovo tipo di inferno.
Gli Stati Contraenti applicano le disposizioni della presente Convenzione ai rifugiati senza discriminazioni quanto alla razza, alla religione o al paese d’origine. [Articolo 3 della Convenzione di Ginevra, 28 luglio 1951]