S è preciso e gentile e non si lamenta mai. Quando l’ho conosciuto, si occupava del
condominio due ore al giorno, quattro piani di scale e cortile interno, pulizie e gestione
della spazzatura, e la durata del suo viaggio da e verso casa eccedeva le ore di lavoro; a
conti fatti, un mese del suo stipendio bastava a stento a coprire l’abbonamento annuale
dei mezzi. Ammette che la situazione è difficile e allontana lo sguardo. Negli ultimi due
anni, a Natale, ho cercato di raccogliere una mancia tra gli inquilini per il suo lavoro, ma
molti pagano l’affitto a stento e allora la mancia è smilza.
Lo scorso anno i biglietti dei mezzi pubblici di Milano hanno subito un brusco aumento
di prezzo a fronte dell’estensione di validità (durata e zone coperte); S mi rivela che il
costo degli abbonamenti è rimasto pressoché invariato.
Ringrazio mentalmente la presente amministrazione comunale mentre S mi consegna le
chiavi del cancello per il duplicato.
Incrocio lo sguardo del ragazzo davanti al bar della mia colazione e mi chiedo se O stia
bene. Ci eravamo sentiti durante il lockdown, e mi aveva chiesto aiuto perché non riusciva
a coprire le spese fisse in assenza di lavoro. O è dignitoso e forse non avrebbe il coraggio
di chiedere il mio aiuto due volte, e da mesi non ho sue notizie. Non tornavo a Milano da
gennaio e il cambio della guardia davanti al bar mi conferma che la città ha continuato a
respirare, con i suoi problemi di sempre, accanto ai nuovi, portati dall’emergenza.
Bevo il caffè con gli occhi sul cliente che suona il pianoforte del bar. I rumori delle
tazzine, la musica inattesa, il buongiorno dei clienti abituali e i baristi che conoscono in
anticipo i loro ordini, tutto sa di casa. Anche le caffettiere Bialetti di tutte le misure in
vendita al negozio di ferramenta. Ora esiste anche una caffettiera da mezzo caffè (niente
sprechi, promette), e io e l’omino impegnato a duplicare le mie chiavi ridiamo che al
mattino non basta neanche quella da una tazza, figuriamoci questa. E poi, come dicono a
Napoli, comprare una caffettiera da uno fa tristezza perché vuol dire che bevi il caffè
sempre da solo.
Mi complimento con me stessa per avere appena tolto “chiavi” dalla lista delle cose da
fare e provo i duplicati per puro scrupolo. Accolgo la scoperta che una delle chiavi non
funziona con un grugnito.
Cammino sul lato opposto della strada e penso al “rischio di progetto”, ai tempi di
contingency che aggiungi alle stime di durata all’inizio di un’attività per imprevisti come
questo: ché qualcosa alla fine non funziona mai. E allora faccio un calcolo mentale delle
probabilità: è verosimile attendersi che una chiave su tre, ma non più di una, non
funzioni. Sento la voce di mia madre, che non ha mai perso una scadenza, concordare
sulla mia stima del rischio.
Al ritorno, penso che in fondo questo viaggio imprevisto mi stia offrendo la possibilità di
un secondo caffè, e così scelgo un altro bar, piccolissimo, senza tavoli, solo lo spazio per
stare in piedi, di quelli che vendono anche il latte e le merendine confezionate. Siamo tre
clienti, disposti a triangolo isoscele, distanza sociale rispettata, e discutiamo con la signora
dietro il banco della vicina molesta dell’uomo all’angolo più lontano da me. È solo il
tempo di un caffè, ma il sapore è diverso da quello di Zurigo, dove i clienti non si parlano
e il caffè non ha odore.
Ma la chiave ancora non funziona e allora io penso che anche mamma inizierebbe a
perdere la pazienza.
Il ragazzo davanti al bar del pianoforte mi guarda incredulo. Sorrido e inizio a pensare
che il cosmo mi sta suggerendo di parlargli. Quando mi avvicino, lui indossa la
mascherina, che teneva sul mento. No, non ha un lavoro né il permesso di soggiorno.
Al negozio di ferramenta, reprimo la nuova tentazione di comprare una caffettiera. Il
fabbro inizia a dubitare di me e ritocca la chiave più per cortesia che per genuino dubbio.
Al ritorno, calpesto escrementi di cane sulle strisce pedonali e impreco. Solidarietà dai
testimoni alla fermata del tram. Pulisco la scarpa con un fazzoletto e sgrido mentalmente
il proprietario del cane, che non considera il rischio di disagio all’anziano, al disabile, al
cieco. Comunque ora ci si può disinfettare le mani a ogni angolo, e così l’incidente è
ridimensionato.
Ma la chiave non ne vuole sapere di collaborare.
C’è quel film con Bill Murray che continua a rivivere lo stesso giorno, e il mattino dopo
non arriva finché lui non fa la cosa giusta. Così, quando incrocio lo sguardo del ragazzo
davanti al bar del pianoforte, questa volta mi fermo un po’ di più. Si chiama David, viene
dalla Nigeria, proprio come O. In Italia da quattro anni, ancora privo di un permesso di
esistere e lavorare legalmente. Mi conferma che Naga, un progetto no-profit che offre
assistenza sociale, sanitaria e legale agli stranieri a Milano, lo sta aiutando, ma in fondo è
la legislazione a creare uomini-ombra, e sarebbe ora che cambiasse. E che lo Stato di
Diritto tornasse a ricordarsi di essere tale, per tutti.
Finalmente la chiave funziona. Un po’ ancora resiste, eh, ma mi aiuta S, che apre e chiude
e riapre e richiude, paziente, mentre mi racconta della moglie che ora forse ricomincia a
lavorare e del figlio che ha finito gli studî e ora ha trovato lavoro. E vedo in lui un
barlume di speranza: un piccolo sollievo, una possibilità di riscatto.