Insegnare al rispetto del vulnerabile inizia da lì, dal riconoscere il proprio ingresso nel mondo altrui. (Simona Bonardi)

Riaprì gli occhi, e tutto il mondo era lì.

Il piede destro tocca l’acqua limpida e io sento gli angoli della bocca sollevarsi verso il
cielo. Il cerchio di gamberetti intorno all’intruso fa un salto indietro e c’è solo il suono
della mia risata. Sono immobile in un piccolo bacino di acqua bassa tra le rocce. I
bagnanti sono poco più in là, sulla sabbia. Per arrivare qui, ho camminato su un pontile di
cemento costellato di patelle, muovendomi piano per evitare di mietere vittime. Sono
ospite, e sto godendo della generosa pazienza del mare.
Prima di scendere dal pontile, per un po’ non ho visto niente tranne la distesa di coni
tutto intorno e i grappoli di cozze. Mi sono accovacciata e ho iniziato a fissare – come
quando guardi quei quadri tridimensionali colorati e aspetti che il cavallo nascosto corra
verso di te, o come quando a Zurigo avevano spostato un palazzo sui binari e io avevo
scelto un puntino sulla ruota ferrata per seguirne il moto relativo (3 metri all’ora, diceva il
cartello, accanto al ritratto di una chiocciola sorridente più veloce del palazzo). E il mare
aveva iniziato a muoversi.
Come quando entri in una stanza buia e gli occhi improvvisamente riconoscono nuove
ombre, così io avevo visto una chiocciolina prendere vita, la sua vicina arrampicarsi sopra
di lei. E poi altre due lì vicino, anche loro a torre, che chissà se è un rito o un gioco.
E una stella marina rossa, piccola e immobile, ma poi mi sono distratta poco poco e lei
non c’era più, e io ho pensato di averla sognata. Un granchio nero nervoso in corsa
sott’acqua; e un granchio bianco, gigante, fuori, aggrappato con tutte le forze in verticale
al muro del pontile, gli occhi a ovest, indifferente a due tentativi di solletico, e con
quell’ostinazione delle mattine che non vuoi uscire dal letto e che se il mondo insiste
finisce che lo mordi. Un pesce scuro fermo in una piccola valle di cemento sbrecciato. E
una nuvola di gamberetti d’argento, grandi come un’unghia o lunghi come un dito.
Il mio piede sinistro si fa coraggio e raggiunge l’altro. Attende.
Un gamberetto si avvicina all’intruso destro. Nuota a zigzag, lo sento pensare. Le antenne
azzurre toccano e fuggono, toccano e fuggono, ma io rido solo fuori dall’acqua e allora lui
si fa coraggio, si adagia sue mie dite, le esplora. Chiama gli altri, ma il grande del gruppo
salta più lontano di tutti.
Io sono felice. Studio le antenne, i colori, l’anatomia delle trasparenze. E so che sono
tanti minuti perché alla fine sto per perdere il treno.
Mi rivesto e penso che forse dovrei salutare il mio compagno di giochi, ma tre bipedi
hanno preso il mio posto. Nonna, padre, bambina, armati di retine e secchiello. Catturano
e intrappolano nel semicono in plastica blu – e forse è la prima volta che il blu mi rende
triste.
Il padre passa con la rete sotto le rocce, negli anfratti del pontile, per catturare i
fuggiaschi. La bimba lo imita. Il secchiello contiene cinque bicchieri d’acqua e la vita di

una laguna. Penso che il mio giocare con loro li abbia esposti a ulteriore pericolo: si sono
fidati di me, si fideranno dei miei simili.
La nonna mi dice che no, che non li uccideranno. Ma una nube di animali spaventati si
muove nel secchiello e qualcuno di loro morirà per far giocare la bambina bionda.
Penso che educare un bambino non significhi mettere il mondo a sua disposizione. E
non importa quanto piccolo l’esserino – il diritto all’esistenza non è funzione della
dimensione. Insegnare al rispetto del vulnerabile inizia da lì, dal riconoscere il proprio
ingresso nel mondo altrui, geografico o metaforico.
Penso che quello che accade là fuori – le leggi che non rispettano l’ambiente, la
produzione che non tiene conto del nostro ruolo di ospiti e coabitanti – sia figlio di
questo: mondo a mio uso e consumo.
Non trovo miei simili in questo esercito di invasori voraci che affollano e divorano.
Raccolgo oggetti in plastica logora destinati a tornare in mare alla prossima alta marea:
veleno nello stomaco di chi li confonda con cibo, cannucce nelle narici di una tartaruga.
Ogni tartaruga marina, pesce, cetaceo, gabbiano ha ingerito plastica – è noto. Il loro
organismo non riesce ad espellerla e loro muoiono avvelenati lentamente, di fame.
Extinction may not come soon enough.
Cammino verso la stazione e continuo a raccogliere la spazzatura. Ho poco tempo, e
allora privilegio la plastica trasparente, quella che vola e fluttua, come gli incarti delle
sigarette, e che può essere scambiata per una medusa.
Penso che il problema non è il fumatore, o il nostro nutrirci, ma il modo in cui lo
facciamo – concentrati sul presente, sul nostro essere utente e unico protagonista. Come
se non importasse come quel presente sia arrivato a noi né cosa sarà dei suoi resti.
Non è forse tempo di cambiare?