Che forza è quella che solo ti chiede di ubbidire? (Coimbra, 2020. Immagine di Simona Bonardi)

Se l’uomo è plasmato dal suo ambiente, il suo ambiente deve essere reso umano.
Karl Marx and Friedrich Engels, La Sacra Famiglia

Jaime Cortesão (1884-1960) medico, politico, storico e autore portoghese, è uno dei miei
incontri di questo viaggio. Al piano mezzanino della scala che conduce alla biblioteca
Joanina dell’Università di Coimbra, per la cui visita le persone in fila indiana davanti a me
hanno acquistato il biglietto, sono esposte le lettere di Jaime Cortesão al fratello nel
periodo vissuto in esilio in Spagna, Francia e Brasile. In lingua francese per superare i
controlli ignoranti della censura, le lettere sono una limpida e preziosa testimonianza della
macchina burocratica del regime fascista e del prezzo pagato dai suoi oppositori:
lontananza dalla patria, dalla famiglia, dagli amici, dalla propria rete di supporto. Emerge
la faticosa gestione dell’identità ferita, quando la migrazione sia non il risultato di una
libertà di partire, ma dell’umana impossibilità di restare. E le difficoltà economiche, il
lavoro sottopagato di scrittore e traduttore, la precarietà di un’esistenza che è solo
presente: niente passato (irrilevante nella nazione di adozione) né futuro (assenza di
prospettive, mancanza di opportunità). A quasi cento anni dalla data di quelle lettere, i
nuovi esiliati, in fuga da realtà diverse e comunque avverse, raccontano nuove e simili
difficoltà: l’attraversamento dei confini interni dell’Europa nell’inseguire una certa idea di
equilibrio, instabile e faticoso, certo, ma necessario per un’esistenza dalla dignità
amputata.
Questa è la mia seconda visita alla sala. Un incontro privato con Jaime Cortesão. Sono
sola, fatta eccezione per la signorina che, in silenzio, non mi osserva.
La prima volta, avevo da poco iniziato a leggere quando la sua voce, la voce della
signorina, aveva invitato tutti i presenti a proseguire la visita per accedere alla biblioteca –
attrazione principale del percorso. «Può rimanere a leggere, se lo desidera, ma il tempo
verrà decurtato dai dieci minuti concessi nella sala della biblioteca.» Il 99% dei visitatori
neppure nota la mostra, aveva aggiunto, e sono loro, non l’1%, a sancire il ritmo delle
visite. Le lettere in questa stanza ridotte ad arredamento: insulto supremo – all’autore, ai
valori che le lettere incarnano, all’istituzione sotto i nostri piedi. Avevo proseguito con un
senso di disfatta misto a rabbia. I soffitti barocchi della biblioteca pesanti sopra di me.
Tutto intorno, il disinteresse degli altri visitatori, nessuno dei quali aveva identificato un
affronto in quella giostra turistica a zittire la riflessione.
Questo avevo risposto, poco più tardi, a un giovane che mi chiedeva conto del mio
vagare nell’androne della biblioteca generale, nell’edificio accanto, quando mi aveva
informata che la biblioteca in cui mi trovavo è riservata agli studenti – stavo forse
cercando la famosa biblioteca dell’università? E lui non sembrava avere riconosciuto
l’affronto, ma l’importanza della mia esperienza di visitatore. E così era andato a parlare
con il direttore generale, che a sua volta mi aveva scortata alla sala di Cortesão, per una
visita d’onore.
È importante guardare alla Storia, penso, e non agli eventi isolati. Perché al termine del
mio percorso, io e la signorina, che ora ha un nome, abbiamo trasformato l’attrito

invisibile tra noi in un timido dialogo. E i sorrisi prendono la rincorsa e discutiamo di
dittatura, dei nostalgici di un certo ordine apparente e spietato, di razzismo – quello più
insidioso, intrecciato nelle maglie del tessuto sociale – e di un presente che fa rima con
cent’anni fa, e con un certo ordine delle cose. Le parole corrono dentro e fuori quel
prisma che sono i nostri occhi, pensieri, esperienze uniti in uno sforzo sfaccettato – come
un lavoro di gruppo a dissezionare le pagine di un capitolo di Storia alla ricerca di una
diagnosi condivisa.
Una giovane democrazia, il Portogallo, confrontata con l’Italia, mio Paese di origine.
Eppure, anche qui, riconosco disonestà alla guida del sistema. Come un cattivo contadino
che non curi la salute della propria terra, che non sappia prepararla per il ciclico lavoro
delle stagioni, vedo nella fatica individuale di ognuno per la propria sopravvivenza la vera
minaccia al bene collettivo. La mia interlocutrice mi svela che razzismo è anche qui, che
solo un mese fa un attore di teatro è stato ucciso per strada in un crimine di odio razziale.
Dittatura è il contadino che garantisca il germogliare dell’odio, o ne prepari lo spazio
perché abbia lo stesso diritto di esistere del bene comune. Nostalgia di dittatura è la
negazione di uno specchio condiviso, la legittimazione del privilegio individuale al prezzo
di un diritto universale. Mors tua vita mea.
Quattro nuovi gruppi di visitatori ci superano, non leggono le lettere. Invochiamo
l’estinzione del genere umano, e la potenza inesorabile della Natura; ridiamo. E poi
qualcuno rallenta, si sofferma, altri lo imitano; qualcosa cambia, e tutti, per qualche
istante, leggono.