Quando torno, Laila sta infilando le All Star a Goan, sopra le calzine pulite. Piedini grandi la metà delle mie mani. Atene, 2 maggio 2016 (fotografia di Simona Bonardi)

Ho sempre disprezzato l’attesa. L’attesa è un meccanismo di tortura usato nella prigione del tempo.
Behrouz Boochani, Nessun amico se non le montagne

Forse sono le 6. La luce filtra dai triangoli blu e viola del soffitto della tenda. Mi alzo in silenzio. Io e Laila scambiamo un sorriso.
Vado al bagno con gli anfibi: il pavimento è quello dei bagni degli autogrill in agosto. Impiego qualche istante a decidere come muovermi, per non correre il rischio che l’asciugamano cada nel lago sotto di me. Mi lavo a pezzetti con il piccolo asciugamano sulla spalla; qui è difficile anche portare lo spazzolino da denti, a meno che il pigiama non abbia le tasche. Conosco Laila, e so che condividere tutto questo con me è atto politico e supremo gesto di amicizia.
Avevo incontrato Laila raccogliendo interviste di persone vulnerabili al porto di Atene. Si era creata una coda lunghissima di donne sole, in viaggio con o senza bambini, e si era fatta sera senza che io potessi parlare con tutte. Avevo annotato nomi e numeri di telefono, promesso che sarei tornata. Avevo intervistato Laila il secondo giorno. Il suo bambino aveva diciotto mesi ed era stato due volte in ospedale: la prima, a causa di un problema cardiaco; la seconda, a Idomeni, a causa dei lacrimogeni lanciati dalla polizia macedone di confine. Mentre in Grecia il personale medico rifiutava di rilasciarle la relativa documentazione, accusando i richiedenti asilo di voler approfittare della situazione, la foto di Laila in fuga da una nuvola di gas con il bambino tra le braccia aveva raggiunto il marito in Germania attraverso i media. Madre e figlio viaggiavano entrambi con passaporto valido, ma non era concessa loro alcuna priorità. Nei giorni di sole, l’asfalto sotto il pavimento della tenda era bollente; nei giorni di pioggia, Laila condivideva con 1.300 persone la sala d’attesa del terminal. Così, al termine dell’intervista, avevo sentito la mia voce dire: «Non potete stare qui. Dobbiamo trovare un’alternativa.» Quando l’interprete aveva tradotto per lei, spiegando che no, che i fondi che l’avrebbero aiutata non erano denaro pubblico ma donazioni private, Laila mi aveva guardata con ferocia: «Dove sono i diritti umani dell’Europa?» Aveva rifiutato il mio aiuto, e io mi ero scusata per averla offesa. «Non è carità, ma un gesto di solidarietà da donna a donna.» Le avevo lasciato il mio numero; credevo che lo avrebbe stracciato. Mi aveva contattata qualche settimana più tardi, confermando di non voler accettare l’offerta: «Volevo scusarmi: sono stata dura.»
Quando torno dal bagno, Laila sta infilando le All Star a Goan, sopra le calzine pulite. Piedini grandi la metà delle mie mani.
Io mangio un biscotto senza sapore e lei un frutto che condivide con Goan. Attivista politica curda, in prima linea per l’emancipazione femminile, poetessa e infermiera, niente la spaventa. Ma come madre, ha deciso di lasciare la Siria per portare Goan al sicuro.
Arrivata in Europa cercando diritti umani, ha trovato una tenda che si allaga a ogni temporale.

Qualche mese più tardi, Laila accetterà di condividere con me un appartamento ad Atene. Goan, che non aveva mai parlato, inizierà a cantare. Trascorrerà un altro anno prima che la sua procedura di riunificazione familiare con il marito in Germania venga accettata.