Il telefono vibra mentre mi preparo a uscire per la cena di compleanno di M. M è sempre puntuale, ma spero stia per dirmi che è in ritardo, assolvendomi dal mio.
Il nome sullo schermo è in un alfabeto che non so leggere, e allora so che non è M. Rifletto se rispondere, e aggravare il mio ritardo. Rispondo prima di avere deciso.
N si annuncia con la voce di un vecchio amico. Gli chiedo di ripetere, e lui esegue, due volte, con convinzione, come se il mio non riconoscerlo non fosse un’opzione.
«Ci siamo incontrati a Kos quattro anni fa. Mi hai regalato un paio di scarpe. Ho ancora il tuo biglietto.»
Il senso di irritazione si dissolve. Ricordo bene, ricordo tutto. Ho scritto di te, di voi, qualche settimana fa. Cioccolata e stringhe rosa.
Non ci si abitua mai a essere in una posizione di privilegio, a essere punto di riferimento per altri.
Succedeva in Sudafrica; succedeva in Grecia; succede ora, quando il telefono consegna messaggi che mi ricordano del mio piedistallo. È accaduto altre volte: le richieste di aiuto arrivano non perché hai la soluzione, ma perché sei dall’altro lato della barricata. La mia irritazione non è mai il treno che sto per perdere, o una riunione di lavoro intorno a me che reclama la mia attenzione: è il ricordo della mia impotenza.
Un amico di N, suo compagno di casa, è stato arrestato. Ha ricevuto una telefonata di invito a presentarsi alla stazione di polizia, ha creduto che si trattasse della consegna dell’esito della domanda di asilo, e ora è in prigione.
Fisso con N un appuntamento telefonico per il giorno successivo e torno al mio appuntamento: io, il mio telefono, i miei vestiti eleganti, le scarpe nuove, l’uomo in prigione che rischia la deportazione, l’amico che per provare ad aiutarlo deve aspettare domani.
Scopro che W, l’uomo detenuto, viene dallo stesso villaggio di N, in Pakistan. Che la sua famiglia è coinvolta in una guerra tra famiglie da più di quarant’anni, e che suo zio sta scontando una pena in prigione per la morte di un membro della famiglia rivale. «Non posso dirti di eventi di quarant’anni fa. Posso dirti che W non ha ucciso nessuno.» Ma la famiglia rivale sostiene la sua colpevolezza, e le autorità pakistane hanno richiesto la sua estradizione.
È tanto più semplice aiutare qualcuno in assenza di dubbio. Elaboro le informazioni mentre ascolto; ho più domande che risposte.
Prima di andare in Spagna, W è vissuto in Arabia Saudita per dodici anni, dove gestiva una piccola officina di autoriparazioni. Il rinnovo del suo permesso di soggiorno, ogni due anni, dipendeva da uno “sponsor” locale – un privato cittadino che agisse da garante. Uno spiraglio, per chi desideri essere accolto dal sistema; ai miei occhi, un promemoria della condizione di disuguaglianza istituzionalizzata alla quale una fetta di umanità appartiene.
Stanco di quella cronica precarietà e delle ripercussioni sulla moglie e il figlio, tre anni fa W aveva deciso di provare a costruire un futuro in Europa. Moglie e bambino erano tornati in Pakistan; lui aveva raggiunto l’Europa con un visto turistico.
Fatico a immaginare un violento criminale vivere per quindici anni, in diligente obbedienza a un sistema alieno, l’esistenza modesta e ordinata di W. Il forzato distacco dalla famiglia – quella di origine e quella creata – suggeriscono una storia diversa. E la presunzione istituzionale di un Pakistan “Stato di Diritto” odora di ipocrisia.
Celia Cruz canta La vida es un carnaval e io ballo. Penso a una vacanza, al mio lavoro, al mio passaporto. L’ultimo messaggio di N mi informa che W ha un legale assegnatogli d’ufficio. Due cittadini spagnoli sono disposti a garantire per W e le istituzioni valuteranno la richiesta di estradizione.
Penso a N, che non abbandona W né dubita che sia la cosa giusta da fare. Umana decenza.
Lo specchio mi interroga mentre continuo a ballare.