Siedo in una sala riunioni. Intorno a me, voci parlano di qualcosa che presto atterrerà sulla mia
scrivania. Sto cercando di presentare la mia idea di soluzione quando il mio telefono vibra. Di
nuovo, dopo qualche istante. Vibra ancora e ancora.
D. viene dal Tibet e ha presentato domanda di asilo in Francia.
Il nostro incontro in Grecia, in una stazione di polizia, è segnato da due momenti chiave. Il primo,
in cui le avevo prestato una copia del Time con Trump in copertina che lei aveva usato come
“cuscino”; c’erano anche libri, forse più comodi, nella mia borsa, ma non avevo resistito allo
scenario di un Trump che fosse di conforto, suo malgrado, a un richiedente asilo. L’avevo detto ad
alta voce, e io e D. avevamo riso insieme.
D. è di poche parole, timida e riservata. Difficile immaginare che questa donna minuscola abbia
indispettito il governo cinese a tal punto da dover fuggire; in un inglese ingarbugliato, accenna di
essere stata colta in flagrante dalla polizia mentre affiggeva volantini per la liberazione del Tibet.
Scoprirò solo tra molti mesi che è sposata e che suo marito vorrebbe raggiungerla, ma il costo del
viaggio illegale è proibitivo. Ottenere un visto è impossibile, quindi rimarranno separati per un
tempo indefinito. D. parla regolarmente con la madre, una donna con i colori dell’arcobaleno sulle
guance e negli abiti tradizionali, che le manca immensamente.
Il secondo momento chiave era stato poco prima di separarci. La situazione non permetteva
scambi tra i presenti, così io avevo scritto il mio nome e numero di telefono su un pezzetto di carta
stropicciata e le avevo bisbigliato di scrivermi se avesse avuto bisogno di aiuto. La sua mano destra
si era chiusa intorno al biglietto ed era tornata in tasca; senza una parola. Credevo che non avrei
mai più avuto sue notizie.
Leggo i messaggi non appena termina l’incontro; D. è tornata in prefettura per chiedere
informazioni sull’alloggio (una stanza in un appartamento condiviso?), sospeso nell’aria come una
misteriosa promessa che nessuno sembra essere disposto a mantenere.
Ancora una volta, le hanno detto “no” o “niente” o “non ancora” o qualche equivalente di “riprova
più avanti”. Naturalmente non le è dato di sapere quale sia il problema: risposte, spiegazioni e
trasparenza sono, nella migliore delle ipotesi, un lusso per i cittadini legali; certamente non per un
alieno, non per una persona così provata dal proprio passato da resistere in questo estenuante
limbo, non importa quanto difficile o umiliante la procedura. Una bomba a orologeria, secondo il
mio modesto parere, questa sistematica umiliazione di un essere umano; ma chi sono io per
insegnare all’Europa della miopia di certe politiche.
D., che ha raggiunto l’Europa viaggiando sola, viveva in una tenda all’aperto fino alla settimana
scorsa, quando improvvisamente le era stato concesso un tetto (solo le notti) in una casa privata,
dove una famiglia aveva un letto libero nella camera delle figlie. Il mio entusiasmo per la sua nuova
sicurezza non era durato a lungo: ogni due o tre giorni circa deve trasferirsi presso un’altra famiglia.
Non ha fatto nulla di male, mi aveva rassicurato: così funziona il sistema. Il superlativo del
precario. L’ottimo minimo per far sentire qualcuno benvenuto, con i guanti bianchi.
Prima che il governo francese le conceda un alloggio, D. dormirà per settimane su una sedia del
ristorante cinese in cui lavora. «Quasi tutti i tibetani qui lavorano in ristoranti cinesi», aveva
risposto alla mia sorpresa, «e mi servono i soldi».
Mentre tutto ciò accade, mentre la sua vita continua con un senso di certezza che non dura mai più
di 8-12 ore alla volta, io affondo. La priorità che ho dato a un incontro di lavoro sulla lettura di
messaggi che portano il peso di una vita in attesa. «Te lo dico perché se lo dicessi alla mia famiglia
loro sarebbero tristi. Te lo dico perché non ho nessun altro».
Questo, cara Europa, è l’ultimo insulto che ho registrato. Un essere umano con i miei stessi diritti
inviolabili che ripone in me, una perfetta estranea, la sua fiducia preziosa e delicata.
Se tu, Europa, se noi, cittadini, continueremo a rifiutare di vedere i nostri fallimenti, io continuerò
a prendere nota. Sarò lo specchio della nostra immagine corrotta.