1 giugno 2020, Giornata Internazionale del Bambino
Uno dei risultati eccezionali del XX secolo in campo umanitario è l’istituzione del principio secondo cui il problema
dei rifugiati è una questione di preoccupazione della comunità internazionale e deve essere affrontato nel contesto della
cooperazione internazionale e della condivisione degli oneri.
Sadako Ogata
Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) 1991-2000
Prefazione alla Convenzione sui rifugiati, 1951
Il divieto di respingimento (refoulement) verso una situazione di pericolo, di persecuzione in base al diritto
internazionale dei rifugiati è applicabile a ogni forma di trasferimento forzato, compresi deportazione, espulsione,
estradizione, trasferimento informale (rendition) e non ammissione alla frontiera.
Parere consultivo sull’applicazione extraterritoriale degli obblighi di non-refoulement
Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), 2007
Campo profughi di Vasilika, Salonicco, Grecia
Le mani dell’uomo insonne ricevono un farmaco dall’aspetto familiare. Ho tradotto la sua richiesta.
Due minuti all’ambulatorio del campo.
Due minuti sulla spiaggia di Izmir, Turchia. Un giorno di febbraio, una notte fredda, un’ora dopo la mezzanotte.
Una donna sui vent’anni. Un bambino in braccio. Un anno, forse?
Il bambino si sveglia dal sonno, inizia a piangere.
Il pianto spezza l’oscurità. Scuote il serpente invisibile che si muove verso il gommone sulla spiaggia.
Piano, devi fare piano. Silenziosi i nostri passi; forte il pianto del bambino. Cresce.
La testa della fila si ferma. Noi obbediamo.
Siamo tutti in piedi, silenziosi, immobili.
La tasca del trafficante produce una piccola scatola. L’uomo si avvicina alla donna e al bambino.
«Dagli dieci gocce per dormire.»
Il comando stordisce tutti. Eppure nessuno fiata, nessuno si oppone.
E se anche lo facessero? È buio. Puoi sentire quello che vuoi. Nessuno ti vedrà piangere, ridere, arrabbiarti.
Sono vicino alla donna. Apre il flacone. «Si sveglierà se gli do dieci gocce?» Mi basterebbe un secondo per rassicurarla, per rispondere sì. Ma la parola muore in gola, perché davvero non so cosa stia succedendo.
«Certo che si sveglia. Ad alcuni bambini diamo di più di questo.» La voce del trafficante parla prima che io riesca. «Sbrighiamoci.»
La donna si siede per terra. Cerca di forzare il bambino che resiste alla medicina: non vuole essere parte di questo crimine.
Le sue mani tremano. Il suo respiro è turbato.
Sono chiamato a finire il lavoro. Mi avvicino. Prendo il bambino dalle braccia della madre; insieme versiamo le gocce nella sua bocca. Il pianto non è aumentato. Le urla sì.
Ancora oggi vedo il volto della donna. Gli occhi pieni di lacrime quando costretta a drogare il proprio figlio. La paura.
Paura per il proprio bambino. Paura del mare.
E mi chiedo. Perché il nemico entra nella nostra terra rumorosamente, con aerei, armi ed esplosioni, ma noi, i proprietari della terra, dobbiamo andarcene in silenzio?
Anche i nostri figli non devono piangere.
Come molti altri richiedenti asilo, Amer, autore di questo racconto, ha lavorato come volontario interprete arabo-
inglese nei campi profughi in cui lui stesso viveva.
Insonnia, stress e ipertensione sono disturbi comuni tra i residenti del campo.
Simona e Amer si sono incontrati il primo maggio 2016 nel nord della Grecia e sono diventati amici.
Amer Al Haj viene dalla Siria.
Dopo circa due anni di attesa in Grecia, la sua domanda di asilo è stata accolta e assegnata alla Spagna tramite il
programma europeo di “Relocation”.
Laureato in Ingegneria Petrolchimica, oggi vive a Barcellona, dove lavora in un campo di accoglienza per minori non
accompagnati e studia per diventare un professionista IT.