Cimitero di Lampedusa, 26 luglio 2015. (Immagine di Simona Bonardi)

Che uomini sono quelli che fanno finta di niente?
Che vedono e non hanno visto?
Che sentono e non hanno udito?
Che sanno e non hanno saputo?
[…] È questa la voce del mare. Io sono testimone.
Mimmo Sammartino, Un canto clandestino saliva dall’abisso

Luglio 2015, Lampedusa
Siamo un piccolo gruppo eterogeneo di individui, arrivati qui per ragioni diverse e simili. Veronica,
il nostro punto di contatto locale, ha pianificato con cura i nostri giorni per farci conoscere la realtà
degli arrivi attraverso tutto ciò che ne è toccato. Un pensiero perfetto: disegna tutto quello che la
circonda, e l’immagine emergerà da sé.
Abbiamo visto dove le persone dormivano, all’aperto, sotto le palme sulla sabbia, nel 2011, quando
la popolazione sull’isola aveva raggiunto il numero di 15.000, più del doppio del numero normale
di abitanti. Abbiamo incontrato gli indigeni che avevano aperto le proprie case; famiglie i cui figli
avevano lasciato l’isola per andare a studiare o lavorare sulla penisola avevano offerto le camere
vuote ai giovani arrivati. Ogni giorno venivano preparate enormi pentole di cibo; trasportate alla
spiaggia per sfamare migliaia dalle stesse donne che avevano cucinato. La pentola più grande che io
possiedo sfama quattro persone.
La prima cosa che imparo a Lampedusa è che umanità è ciò che fai quando non hai un biglietto di
ritorno a qualcos’altro.
Tra gli oggetti più preziosi che porterò con me alla fine di questo viaggio c’è una croce, matrimonio
asimmetrico e robusto di due pezzi di legno scheggiati, giallo il verticale, rosso le braccia. Non ho
grande simpatia per i simboli e sono profondamente allergica al potere che quelli religiosi
esercitano sui devoti, ma questa non è una croce qualsiasi. I mezzi di trasporto utilizzati per
attraversare il tratto di Mediterraneo che separa Lampedusa dall’Africa si sono evoluti nel tempo,
dalle barche di pescatori ai più recenti gommoni usa-e-getta, più economici, che hanno liberato i
trafficanti dalla difficoltà di organizzarne il ritorno. C’è stato un tempo in cui le imbarcazioni non
venivano immediatamente confiscate dalle autorità; Francesco Tuccio, falegname lampedusano,
aveva iniziato a raccogliere i frammenti di legno dei relitti per trasformarli in croci. L’idea non era
quella di venderle; era solo un modo di elaborare ciò di cui era testimone: gli uomini che morivano
in mare; la sua isola violentata sotto la pressione di un flusso in arrivo che sembrava infinito. La
croce portata da chi fugge; la croce portata dall’isola. Nessuno sembrava curarsi della sua isola, se
non per perseguire opachi interessi economici o un preciso programma politico; e così aveva
realizzato una croce più grande e l’aveva inviata a Papa Francesco, con un personale invito a
visitare la sua terra.
E così imparo a conoscere la dualità dell’accoglienza. L’unico confine di un’isola è il mare; Pensate
davvero che la gente abbia iniziato ad arrivare solo ora?, la gente del posto ci chiede incredula. Lampedusa,
un frammento del continente africano, si trova a metà strada tra l’Africa e l’Europa; nel corso dei
secoli è stata base, luogo di passaggio e porto sicuro. Le persone che arrivano dal mare non sono
una novità; chiedersi se lasciarle annegare o farne un affare economico: questa è la novità. Come
base militare, Lampedusa ha molta più attenzione da parte del governo italiano che non i suoi

abitanti. La mancanza di un ospedale sull’isola; l’attività di raccolta e gestione dei rifiuti; le questioni
irrisolte relative all’approvvigionamento idrico e ai servizi igienico-sanitari. Lo Stato di diritto si
sgretola quando i diritti fondamentali di ognuno devono competere con quelli altrui; ne
conseguono la morte dell’uguaglianza e del senso civico. Ed è proprio qui che nascono i problemi.
(Continua)