Provare lutto per la morte di chi
Non abbiamo mai visto –
Implica una parentela vitale
Fra l’anima loro – e la nostra –
Per uno sconosciuto – gli sconosciuti non piangono
Emily Dickinson
Luglio 2015, Lampedusa
«Quanto deve essere grande il nostro cimitero?» Oggi incontriamo i morti. Lapidi senza nome,
foto, data di nascita; a volte nessuna tomba, solo la terra. Fiori secchi o nessun fiore. Il cimitero di
Lampedusa mi dice che quest’isola non è la Porta dell’Europa.
È l’anno 2015. B., capitano di Sea Watch e giornalista, mi informa che la Libia ha il più grande
mercato di schiavi del mondo; quelli che tentano l’attraversamento su gommoni affollati sono i
fortunati. Se B. sa questo, il mondo lo sa, o può saperlo.
Nella stessa settimana, ho visto le persone schierate al porto, in fila sotto il sole in attesa di salire
sul traghetto per la Sicilia. Stavo visitando il Lampedusa Turtle Rescue, il Centro di Soccorso per
Tartarughe Marine di Lampedusa, e la voce di Daniela Freggi, biologa e anima del centro,
raccontava di come il centro nel 2011 avesse ospitato i nuovi arrivi sull’isola per settimane. Il
centro ne era uscito distrutto, e, quattro anni più tardi, insieme ai volontari, alla cui esistenza la
sopravvivenza del centro è da sempre indissolubilmente legata, Daniela Freggi ci mostra i lavori
ancora in corso per ripristinare le risorse perdute. È una donna pragmatica, umana e saggia e la sua
voce non ha tracce di rancore: «Cosa ci si poteva aspettare dal rinchiudere centinaia di persone in
poche stanze?».
È certo ed evidente che non crediamo che chi arriva sia come noi. Non l’ho creduto nemmeno per
un secondo, mentre scambiavo con loro parole incomprensibili e numeri di telefono attraverso la
rete, sotto il sole. Alcuni osservavano in silenzio, di sbieco e con un misto di disprezzo e derisione,
i tentativi dei loro compagni di viaggio di interagire con me. La sindrome del white saviour, il salvatore
bianco, vissuta da entrambe le parti: chi è ben conscio della propria appartenenza a una diversa
categoria di umanità e il gruppo a cui io appartengo, quello che per ottenere un passaporto o
attraversare un confine non deve fare altro che compilare un modulo o presentarsi in aeroporto.
Al mio arrivo a Lampedusa ne ero già consapevole: nessuna possibilità di aiutare. I nuovi arrivi
sono gestiti di notte, lontano dagli occhi dei turisti, e immediatamente trasportati al centro di
accoglienza, situato in una zona remota dell’isola, per essere successivamente trasferiti in Sicilia o
sulla terraferma dopo giorni, settimane o mesi di attesa imprecisata, diversa per ognuno e non
prevedibile. La gestione notturna deve essere stata parte del tentativo di restituire all’isola il diritto
alla propria vita, a una sorta di normalità, e porre fine alla spettacolarizzazione del fenomeno e
limitare il flusso di immagini trapelate sui social media dai turisti. L’immagine di Lampedusa era
stata così gravemente danneggiata che le reazioni alla mia decisione di visitare l’isola erano state:
Tipico tuo, Non metterti nei guai, e una serie di varianti del meno sottile Perché lo fai.
Voglio sapere cosa sta succedendo, e allora parto da casa mia; viaggerò a Calais e in Grecia dopo
Lampedusa. Dicono che questa sia la peggiore crisi dei rifugiati dalla Seconda Guerra Mondiale.
Studiamo la Seconda Guerra Mondiale; eppure, questo, nessuno vuole vedere.
(Continua)