«Non mi sono dimenticata», gli scrivo.
E lui risponde con quattro cuori e due regali.
Parlavamo di cose che ci piace fare.
«Trascorri molto tempo sola,» mi aveva detto, «perché?»
E mi aveva fatto sorridere che lui, solo in una città lacerata dai bombardamenti, solo nell’appartamento che suo fratello ha abbandonato perché non sicuro, lui parlasse a me di solitudine, preoccupandosi della mia. Interrogandosi sul mio eremitismo. Su aspetti della mia vita che persone a me più vicine fingono di non vedere.
Gli avevo raccontato di libri da leggere, cose da imparare, storie da raccontare, disegni che aspettavano di esistere. E allora lui mi aveva inviato una fotografia di sé chiedendomi di farne un ritratto. Così, proprio come un amico direbbe «Mi piace come disegni. Quando ne fai uno per me?»
Gli chiedo com’è la situazione oggi. Tutto ruota intorno a oggi, ogni giorno. Qualche giorno fa mi aveva inviato l’immagine di un’autobomba esplosa nel suo quartiere. E il numero dei feriti. Niente morti.
«Il mondo assiste in silenzio alle uccisioni e alla distruzione della Siria da dieci anni. Non ha protetto la popolazione, né eliminato il criminale Assad, né chiesto conto alla Russia o all’Iran delle proprie responsabilità. Al mondo non importa della Siria.»
E io esito. Perché non posso affermare di capire, io che non ho autobombe fuori dalla porta di casa, aerei sopra di me che lanciano la morte dal cielo. Lo stesso virus che preoccupa me minaccia lui e le persone che vorrebbe aiutare.
Se sentissi di non avere via di scampo, rimarrei in attesa o come lui scenderei per strada? Non è forse meno vivere questo mio – in attesa di un decreto o del dissolversi di paure, chiusa tra quattro mura nell’illusione di una qualche idea di sicurezza – rispetto al suo, lui che parla alla morte come una consorte, che si sveglia con lei da migliaia di giorni.
E che al mondo importi della Siria – del suo Paese a pezzi, dei suoi connazionali che muoiono tra le macerie, uccisi dal gas, torturati in una prigione, in viaggio nel tentativo di raggiungere il confine, annegati in un mare che li separa da un continente che non li vuole, assiderati su una montagna o soffocati nascosti in un autocarro – io proprio non posso dire. Io stessa scrivo queste righe e nient’altro.
I crimini contro l’umanità in Siria sono ben documentati, hanno testimoni diretti e tutti noi come testimoni indiretti. Noi, e i nostri governi che ben ci rappresentano, ci comportiamo come a scuola davanti al bullo che oggi è toccato a qualcun altro: guardando altrove con una punta di tristezza, perché altrimenti finisce che le prendiamo anche noi.
C’era questa donna in un video, “Donne d’onore: parlare di stupro in Siria”, in cui un gruppo di donne sopravvissute alle prigioni di Assad denunciavano torture e violenze sessuali sistematiche. In una società nella quale la violenza sessuale è una cicatrice più per la vittima che per il perpetratore, e sopravvivere a una prigionia in cui si invocava la morte come liberazione è l’ingresso in una nuova gabbia – quella di un’esistenza dalla dignità personale violata –, queste donne avevano deciso di rompere il silenzio a volto scoperto. E una di loro aveva detto: «Siete delle illuse. Pensate che il problema sia la mancanza di una denuncia? Tutto il mondo sa cosa succede in Siria. Vedrete: guarderanno questo video, lo condivideranno su Facebook, e poi si dimenticheranno di noi.»
Non aveva forse ragione?