Marzo 2020.
Il timore per la prossima fine della reclusione, oggi, prevale sul sollievo di poter tornare a uscire
senza restrizioni. Ho sognato di camminare con mia madre nel paese in cui sono cresciuta e
improvvisamente rendermi conto di avere dimenticato di indossare mascherina e sciarpa, e
misurare mentalmente la distanza tra noi e gli altri lung oil cammino percorso.
B. ieri mi ha detto, “Preferisco il rischio di morire all’idea di marcire in casa senza poter
lavorare, senza vedere i miei genitori, i miei amici, tutto.”
Fotografa, le mancano la luce, la strada, i volti, le storie, nascoste là fuori, ancora da
raccontare.
P. teme per le conseguenze sulla sua bambina, “Le abbiamo insegnato a temere la vicinanza
agli estranei.”
Alterno giorni di tranquillità, godendo del tempo misteriosamente ritrovato tra le mie mani,
cercandomi in libri e gioco e balletti e angoli di casa riconquistati, a giorni di tristezza e
sconforto. Come quando scopri che il virus ha zittito un grande scrittore.
Molti contestano le restrizioni imposte al loro quotidiano invocando “diritti” e “libertà
inviolabili”, parole che storcono le loro bocche come le parole stonate di un pappagallo in
gabbia. E sognano il ripristino del privilegio.
Luglio 2016.
“Quando mi sveglio al mattino, voglio richiudere gli occhi per non vedere la mia
esistenza in una tenda,” mi scrive, “Dimmi cosa vedi.”
S. vive in campo profughi nel nord della Grecia, in una zona rurale a mezz’ora di
cammino dal più vicino centro abitato. Ha lasciato la Siria insieme al marito nella
speranza di portare i bambini al sicuro e permettere loro di tornare a scuola. Lui
è farmacista, lei è infermiera. Per fuggire, lui ha corrotto colleghi e funzionari
per ottenere documenti che simulino la necessità di un trasferimento in
ambulanza di una paziente. Lui al volante gestisce i posti di blocco; S. nel retro
dell’ambulanza recita la malattia. Sotto la coperta, i bambini addormentati. E la
paura che trattiene il fiato e prega che non si sveglino o parlino nel sonno.
Il cuore di S. è rimasto in Siria, con i suoi genitori. La tenda le dice che partire è
stato un errore: Hai abbandonato la tua famiglia per andare a vivere nel fango.
Credevo fosse crudele mostrarle la mia vita, ma scopro che le nostre
conversazioni sono una delle cose che la tengono in vita. Un giorno in cui lei
rifiuta di alzarsi perché la zona in cui i genitori vivono è sotto assedio e lei non
riesce a raggiungerli per accertarsi che siano vivi, è il marito a rispondere ai miei
messaggi; e parliamo un po’, finché la sua diffidenza per questa estranea che
rapisce l’attenzione di sua moglie ogni sera si scioglie nel riconoscere quello che
in Europa S. non credeva più di trovare: un’amica.
“Oggi il cielo è grigio. Zurigo è calma e silenziosa perché molti sono in
vacanza.”
“Come mi piacerebbe essere lì! Mi piace la calma. E le nuvole. E l’inverno.”
“Se tu fossi qui ti porterei a passeggiare nel bosco.”
E sogniamo insieme l’arrivo di quei giorni, in cui il nostro organizzare una
passeggiata, un caffè, una chiacchierata – bisbigliando segreti e ridendo con
leggerezza – sia semplice come scegliere il giorno, o l’ora. Incontrarsi alla
fermata dell’autobus. O di fronte a un bar. Oppure alla stazione. E mai più
difficile che riconoscere i propri occhi tra la folla.
E incontrarsi non abbia più la pesantezza di una recinzione a separare le nostre
vite e i nostri diritti diversi.