Marzo 2020.
In questi giorni di forzato isolamento, in cui nessuno è veramente al sicuro, i vulnerabili di ieri lo sono ancora di più, e più soli. Se mia madre e mio padre fossero in vita, io sarei lontana da loro. La distanza geografica che discende da una scelta di vita è assai diversa dalla distanza imposta, quella in cui il genitore muore solo, l’ultimo respiro dentro a un casco; il suo corpo, cosparso di disinfettante e avvolto da un estraneo in un lenzuolo, e trasferito, senza ulteriori cure, nella sala mortuaria; e infine cremato, nel peggiore dei casi in una città aliena, lontano dalle lacrime della famiglia. Il mio pensiero corre ai sepolcri foscoliani, a un vuoto che si sostituisce al luogo su cui piangere un caro estinto, agli esiliati dentro e fuori dalla patria (allontanati dalla terra a cui sentivano di appartenere); ai giorni, ormai lontani, in cui ho salutato i miei genitori, e a quello in cui ho pettinato i capelli di mamma, che continuavano a crescere quando il suo respiro affannato già era cessato. L’esilio ha molte forme, ma questa è forse la prima volta che il nostro presente somiglia a quello di chi arriva dal mare e comunque rischia, per avere salva la propria vita, di morire solo.
Ognuno muore solo, si dirà; quando valichiamo la porta della vita, nessuno è con noi. Ma come in ogni grande passo, vogliamo essere tenuti per mano.
Dicembre 2015. Isola di Lesvos.
Sono circa le 7 del mattino di un giorno di dicembre. Il primo gommone che io abbia mai visto arrivare somiglia a un fiore. È comparso in lontananza e dalla spiaggia sono stata la prima a vederlo; ma non l’avevo annunciato: non si annunciano fiori sull’acqua. Quando inizio a riconoscerne i petali, qualcuno urla l’avvistamento agli altri volontari. Io continuo a guardare, lo sguardo fisso e ipnotizzato, perché nessuna fotografia che io abbia visto prima somiglia a questo. Il fiore si avvicina e diventa persone che chiedono aiuto. E io non so cosa fare, perché ai fiori si sorride, e non so se quello che ora sento è sbagliato.
I miei occhi si posano su una donna avvolta in una coperta. Tutti sono impegnati con qualcun altro, perciò io scelgo lei. Non so niente di come ci si debba comportare; ho il terrore di dire o fare qualcosa di stupido, o sbagliato, o inappropriato. Tutti coloro che sono scesi dal gommone sono bagnati, hanno freddo e tremano. I bisogni più urgenti del corpo permettono ai rispettivi proprietari di non pensare, non ancora; e questo aiuta entrambi: gli arrivi e chi li accoglie.
Mi piego leggermente verso la donna e in lei vedo mia madre che viaggia sola verso un Paese remoto che parla un alfabeto sconosciuto, dopo essere vissuta in una casa a lei familiare e dall’arredamento invariato per cinquant’anni. Rimango in silenzio; la mia mano destra istintivamente raggiunge la sua spalla sinistra e accarezza la coperta grigia ruvida, forse solo per suggerire di non avere paura, forse nella speranza che quel piccolo attrito possa trasformarsi in calore e raggiungere il corpo sotto la coperta.
E la donna scoppia in lacrime. Un pianto inconsolabile, inarrestabile. E sebbene un anno più tardi leggerò in quelle lacrime il pianto per la vita perduta, per la patria lontana, per la propria identità vista dalla costa di un Paese remoto, dopo essere sopravvissuta al surreale attraversamento di un braccio di mare a bordo di un pezzo di gomma gonfiabile stretta in una folla di sconosciuti, in questo momento sono certa che sia stata la mia goffaggine a causare questo; e forse ho anche detto Mi dispiace, e ho pianto anch’io.
Ma non ricordo altro.
Sono certa che non avremmo porte chiuse se ognuno di noi vedesse questo, anche per una volta soltanto.