Gioco. Campo di accoglienza di Leros, Grecia, dicembre 2015. (Immagine di Simona Bonardi)

Dicembre 2015. Isola di Leros.
Campo di accoglienza di Leros, distribuzione dei vestiti.
Il ragazzo di fronte a me stringe al petto un pacco avvolto in diversi strati di carta da imballo con le
bollicine. Convincerlo a posarlo per provare vestiti ancora più difficile che convincerlo che
qualcosa meriti di essere provato.
Il suo disagio nel dover accettare la donazione di abiti usati supera il mio imbarazzo nel
riconoscere la sua dignità in trappola. Se fuggi da una guerra che non ti appartiene, è probabile che
fino a ieri tu avessi una vita normale.
Ha atteso a lungo il suo turno, ma non vorrebbe essere qui. Esplora, con un misto di timore e
ribrezzo, la stanza senza infissi, i muri scrostati, le ceste con i vestiti alla rinfusa, le file di giubbotti
appesi.
Ringrazio in silenzio che non gli sia toccato un altro volontario, magari con poca pazienza e modi
più sbrigativi: quando le persone arrivano a centinaia, smaltire la coda ha priorità sul servizio. Non
sono pochi a non approvare la quantità di tempo che io dedico a ogni persona; “Clienti, non
mendicanti,” insisto.
Sui gommoni, molti trafficanti vietano l’uso dei giubbotti di salvataggio, ritenuti troppo
ingombranti, e vietano o gettano a mare i bagagli voluminosi; quel pacco, che per dimensione e
peso deve avere occupato lo spazio di un bambino, mi dice che il mio lavoro con il suo
proprietario non sarà facile.
Lui è un astrofisico, un ricercatore. Viene dalla Siria.
Nel pacco ha il suo libro più importante, un tomo enorme parzialmente riconoscibile dallo
spessore degli spigoli, e il suo computer.
Prima del mio viaggio, M. mi aveva consegnato alcuni capi di abbigliamento semi-nuovi, freschi di
bucato e perfettamente stirati. Tra questi, un paio di jeans scuri e una maglia nera Mammut in
tessuto tecnico antivento, sottile ma calda, da montagna, con una zip all’altezza del collo.
M. ha posizioni politiche molto lontane dalle mie. Quando gli avevo annunciato il mio viaggio,
prima aveva detto “No”, poi aveva roteato gli occhi, e infine aveva annunciato che i miei vestiti
erano inadatti a quel viaggio su strada e mi aveva portata a fare acquisti.
La sua donazione attendeva da giorni di essere consegnata a qualcuno che raccontasse a M. del
campione di umanità che arriva dal mare.
“Ho quello che fa per te,” annuncio, prima di sparire nello sgabuzzino delle borse dei volontari.
Il ragazzo mi guarda diffidente prima di posare lo sguardo sui vestiti stirati. Alcune rughe si
distendono. Illustro pregi e qualità dei capi, la taglia mi sembra quella giusta: “La maglia può essere
indossata sopra i tuoi vestiti e ti proteggerà dal freddo, che non devi sottovalutare.”
Esita, posa il pacco, prende la maglia. La indossa e distende il tessuto per eliminarne le pieghe. In
altre circostanze, forse l’avrebbe comprata. C’è uno specchio?
Siamo tutti uguali. 
Ci guardiamo in silenzio e scoppiamo in una risata amara.
Lo rivedo tra la gente il giorno dopo, in coda per il cibo. Indossa la maglia e i jeans.

Una volta che avrà superato tutto questo, dopo un’attesa di due anni in una tenda su ghiaia,
cemento e fango, scoprirà che il sistema valuta non solo l’uomo, ma anche lo scienziato in base al
suo passaporto.
I miei occhi si spostano sui bambini che giocano sotto un autocarro carico di pallet in
mezzo al campo.
Tra un anno, i giornali europei inizieranno a parlare dei comportamenti aggressivi e
autolesionisti che i bambini manifestano dopo una lunga permanenza nei campi di
accoglienza.
Ogni bambino che incontrerò in questo viaggio subirà un ritardo scolastico di almeno due
anni.