In questa notte del tempo, Vincenzo Vitale

 

 

 

All’indomani delle celebrazioni, trasmesse dai balconi e tramite internet, con alcuni casi di violazione degli attuali decreti di emergenza che vietano cortei e assembramenti, rifletto su eventi e valori.

Navigando in Facebook, ho incontrato pagine di libri di Storia, nomi e aneddoti che non conoscevo, insieme a inspiegabili anomalie. “Io non ho festeggiato perché non era la mia festa,” è il commento di uno sconosciuto in risposta a una pubblica accusa rivolta alle forze dell’ordine, che sarebbero “di parte” e avrebbero lasciato fiumi di comunisti a manifestare indisturbati in tutta Italia. L’hashtag “#bellaciaounca**o” chiude l’invettiva. Io, che non amo attirare le ire di estranei, ma ancora meno tollero il disonore di chi si battè per ideali che condivido, scrivo in privato a quest’ultimo, segnalandogli un video che mostra, a Milano, forze dell’ordine tutt’altro che morbide con chi avrebbe dovuto, come tutti noi, rimanere a casa – il 25 aprile così come ogni altro giorno di questa forzata reclusione. Lui risponde che le regole sono regole, che lui (“antifascista, eh”, precisa) è rimasto a casa, e che se una giustizia esiste, tutti i trasgressori andrebbero arrestati.

Io, cresciuta in una casa che mi ha trasmesso una solida educazione civica e il rispetto delle regole condivise, da qualche anno utilizzo la parola giustizia con grande cautela, e non più come scontato (desiderato) sinonimo di legislazione. Il 25 aprile ci ricorda come le due possano divorziare, e la seconda essere posta a governare o preservare sistemi iniqui di ordine apparente, appoggiandosi a coscienze individuali e collettive pigre, distratte, negligenti o conniventi; ogni legge, passata o a noi contemporanea, che vada a sovrascrivere il principio di uguaglianza universale degli esseri umani creando di fatto categorie di privilegio è una manifestazione di tale rischio, ed è necessario esercitarsi a identificarla in ogni possibile travestimento – non solo perché un giorno il sopruso potrebbe toccare a me, ma perché è dovere di ognuno essere testimone dell’ingiustizia e, in virtù di quando ne consegue, ad essa opporsi.

Cosicché guardo con grande diffidenza a chi invoca giustizia pensando a giustizieri. E mi dà i brividi chi si estrania, con dichiarato orgoglio, dall’anniversario della fine del fascismo, dalle celebrazioni della Festa della Liberazione dalla dittatura.

I miei genitori, vivi ai tempi del fascismo, non hanno mai mancato un appuntamento con le urne. La mia mamma, che cantò per me l’inno delle Piccole Italiane in una intervista per una ricerca scolastica, non mi rivelò mai per chi votasse, allontanando la mia curiosità come una minaccia antica alla propria libertà di pensiero. Dubito che le rispettive famiglie fossero apertamente fasciste o (come mi piacerebbe credere) coinvolte nella Resistenza; forse furono parte di quel popolo che visse un periodo buio semplicemente seguendo le regole. Il solo aneddoto straordinario di quell’epoca giunto a me vede il mio nonno materno, licenziato dalla fabbrica in cui lavorava, scrivere direttamente a Benito Mussolini chiedendogli conto dell’incoerenza di un sistema pronto a lasciare senza lavoro lui, padre di nove figli alla patria, lui che chiaramente onorava i dettami del regime. Poco tempo più tardi, il titolare dell’azienda convocò mio nonno chiedendo conto della sua impudenza in relazione a una certa lettera; e lo reintegrò nel suo impiego.

Per anni mi sono chiesta cosa sarei stata, se in vita ai tempi del fascismo. Mi sarei iscritta al partito fascista con convinzione oppure in passiva obbedienza al regime? Avrei manifestato il mio aperto dissenso oppure partecipato alla Resistenza in silenzio? Armata o pacifica? A lungo senza indizi, la risposta ai miei dubbi ha iniziato a delinearsi a partire dal 2015. Resistenza pacifica, forse travestita da connivenza.

Nelle mie mani, oggi, una piccola opera, scritta da Vincenzo Vitale e a lui affidata in punto di morte da Leonardo Sciascia. La testimonianza narra di come, nei mesi successivi alla liberazione, l’avvocato socialista Enzo Paroli ospitò, nascondendolo, Telesio Interlandi, direttore de La difesa della razza, insieme alla moglie Mariù e al figlio Cesare, per proteggerli da certa morte, mentre, in tribunale, essendosi fatto carico della sua difesa, otteneva per lui l’assoluzione da ogni accusa, restituendolo a una esistenza libera.

Una storia ambigua, che mi spinge a interrogarmi sui confini tra bene e male, su dove termini la lotta per un ideale e inizi la coerenza di un principio, il “bisogno di vivere e di affermare la propria vita e, attraverso questa, quella altrui.”

 

 

Pubblicato per la prima volta il 26 aprile 2020 sul Corriere dell’Italianità